martedì 22 dicembre 2015

Musulmani salvano cristiani da un attacco terroristico di Al Shabaab

Sul Corriere della Sera di oggi, 22 dicembre 2015, è apparsa una notizia davvero degna di nota.
In Kenya un pullman di linea è stato fermato da un gruppo di uomini armati, appartenenti ad "Al Shabaab" fazione affiliata ad Al Qaeda, ed i passeggeri sono stati costretti a scendere, per poi essere divisi fra cristiani e musulmani. Questi ultimi avrebbero potuto proseguire incolumi, gli altri sarebbero stati uccisi sul posto. E' già successo, purtroppo.
Ma questa volta le cose sono andate diversamente: i musulmani si sono mescolati ai cristiani, ad alcuni di loro hanno ceduto abiti per rendersi meno individuabili, ed hanno risposto "No! O andiamo via tutti, o moriamo tutti!".
Risultato: i terroristi sono stati costretti a fuggire, temendo il sopraggiungere delle forze dell'ordine, lasciando i passeggeri incolumi.
Ecco, mi pare che questa sia una bella "notizia di Natale", da raccontare nel momento dell'anno in cui i cristiani celebrano la nascita di Gesù e, più in generale, l'avvento sulla terra della pace e della luce della conoscenza.
A ben guardare, però, questo avvenimento può dirci ancora di più.
Viviamo un tempo in cui il cinismo appare essere una strategia vincente. Ognuno per sé, arraffi più che può, con violenza, o violando la legge. E per chi non lo fa c'è solo un compatimento da "povero fesso".
Il coraggio, ma soprattutto la mutua e reciproca difesa di quei kenioti, però, ci fanno capire come valori collettivi, leggi ed ideali siano non solo ancora perfettamente vivi, nei cuori degli uomini, ma magnificamente in grado di "vincere" sulla stupida violenza e sulla cieca ingordigia.
Di più, ci fanno comprendere che con quei valori si vive, mentre con tutti gli altri disvalori si muore, subito o in un secondo momento, individualmente o collettivamente, non importa. Ma si muore.

Buon Natale a tutti voi.

martedì 17 novembre 2015

Io c'ero...

... Quel giorno lì, quello in cui il buio è diventato notte invincibile nonostante le sfolgoranti luci di una Ville Lumière bellissima e smarrita.

Ero lì, fra quelle strade, insinuate da un freddo vento novembrino, con le prime foglie dorate a pavimentare i marciapiedi, ed i passanti a stringersi nelle giacche ancora troppo leggere o a ristorarsi nei bistrò, per non sentire l’inverno alle porte, per non sentire la paura alle porte.

Ero lì, quando ho visto sfrecciare a pochi passi da me un’auto nera, a fari spenti, con le ruote urlanti. Magari erano loro, magari no, non lo saprò mai. Ma a poca distanza, uomini e donne già erano bambole di pezza in un tiro al piattello allucinato ed imbecille, erano visi da esplodere a bruciapelo, erano quarti di bestie da offrire in gloria ad un Dio inorridito, mille volte ucciso dall’incredibile, infinita, inspiegabile stupidità dei suoi figli.

Ero lì, cercando rifugio nel Metrò, assordato da sirene, urla e messaggi recitati da altoparlanti gentili ma incomprensibili, di un idioma dolce e musicale ma per me sconosciuto, tenendo per mano mia moglie, guardandola negli occhi per sussurrarci senza parole che avremmo potuto non tornare, che la nostra cucciola avrebbe potuto restare da sola, lontana, senza nemmeno sapere il perchè... così come senza perchè altri cuccioli in quel momento restavano straziati, su un pavimento freddo, distante, troppo distante maledizione!, dal calore delle loro famiglie.

Sono stato lì, siamo stati lì, nelle ore seguenti, in cui una città si è chiusa, spegnendo le luci, chiudendo i portoni, lasciando per strada solo soldati in assetto di guerra e formazione tattica a camminare nel vento, mentre i pochi passanti, addossati a muri incrostati da scritte e graffiti metropolitani, tentavano di essere loro stessi pietre, strada, catrame.

Siamo stati lì, cercando del cibo che ci scaldasse in quelle ore d’angoscia, a litigarci l’ingresso. Entro io, tu sei più importante... se succede qualcosa nostra figlia ha bisogno di te; no, lo sei tu, vado io. Non eroismo ma rassegnata accettazione di un rischio incombente, grave, impossibile da determinare.

Ed ancora siamo stati lì quando, il giorno del giorno dopo, la rabbia per una violenza inumana ha spalancato i portoni, sfondato transenne, riversato uomini e donne in strada, col desiderio di non essere vivi già morti, ma di testimoniare col sangue e la carne che la vita dev’essere libera, che la gioia, la tenerezza, l’amore, devono vincere sul sangue e sulle membra squartate. Terrorizzati ma coraggiosi, tutti per strada, al sole, perchè è meglio piangere pallidi, camminando tremanti ma a testa alta che rintanati al sicuro, sconfitti dalla paura e dalla vergogna.

Ora... ora sono qui, fra le mura protette di casa.

Ma il mio cuore è ancora in quella città, fra quelle strade, con quelle persone, fratelli e sorelle di sangue e dolore e terrore. 

Da oggi io sono parigino, je suis parisienne, io sono chiunque sia offeso, usato, minacciato, ucciso, e voglio urlarlo nonostante la mia umanissima paura, perchè nessuno mai potrà riuscire a farmi essere come non voglio, a farmi odiare, a farmi rinunciare, a farmi nascondere. Mai.

venerdì 18 settembre 2015

The Interview. Ovvero: i fessi siete voi!!!

Pubblico il testo di una intervista che ho trovato trascritta su un foglio all'interno di una bottiglia che galleggiava nella fontana davanti al Tribunale.
Non so bene chi ne sia l'autore o i protagonisti, ma confido nel fatto che voi lettori sappiate perfettamente riconoscerli...



(Il mio giornale mi ha incaricato di intervistare l'avvocato Xxxxx Yyyyy, noto principe del Foro e giovane politico sulla cresta dell'onda. Questa è la trascrizione dell'incontro avvenuto nel cortile del Tribunale...)

Ciao Caro!!! Il tuo Direttore, carissimo amico mio, mi ha pregato di rilasciarti una intervista. Mi ha detto che stai facendo pratica e che sei una promessa del giornalismo...
Allora dai, cominciamo che non ho tanto tempo!

Faccio l'avvocato. Perché? oh bella! per far soldi, e perchè sennò?

Ho un grosso studio in centro, tutto legno e marmo, di rappresentanza. E' importante, colpire la fantasia di chi viene. E poi così giustifico anche le parcelle alte...

Quando vado? Beh in effetti poco. Giusto per ricevere qualche cliente che ha denari, così gli do la sensazione di essere io a seguire la sua causa e posso spremerlo per bene.
Ahahah! Ma pensa!!! Quelli credono che io stia ad andare su e giù per il tribunale per i fatti loro!!! Ahahah!!!

Com'è ovvio, per la maggior parte ci pensano i miei collaboratori.
Come dici? Quanto mi costano?
Ma daiiii!! io non li pago un centesimo!!! Ma quando mai si è visto!!!
Del resto scusa, quando vogliono studiare non si vanno a pagare un corso? embè... io gli do la possibilità di fare pratica, di correre, di vedere gente... dovrebbero essere loro a pagare me!

Comunque io ho altro da fare. Sono impegnato in politica capisci, ci sono riunioni, incontri...
Nooo, non in quel partito lì! Ma noooo nemmeno in quell'altro!!! Troppo grandi!
Meglio quelli piccoli, quelli che possono diventare aghi della bilancia quando ci sono da deliberare appalti o questioni del genere! Così il tuo voto vale qualcosa e diventa soldi, o potere.

E' così che vanno le cose, ed io mi adatto, c'è poco da fare filosofia.
E poi devo pensare alla mia famiglia.
Ho messo su una bella casa qui, in collina, poi quella in montagna, sai per sciare.
Mica i miei figli potevano non sciare, che figura avrebbero fatto con i compagni...
E la barca? Ci voglion soldi per quella! Chi la sente mia moglie se non si può fare quei due mesi con le amiche a mare...
Io prendo due piccioni con una fava: lei gironzola facendo la signora ed io... (mi fa l'occhiolino) ... dai, siamo uomini.... (ridacchia soddisfatto)...

Tutto sommato io mi impegno per loro, si può dire che io sia un uomo all'antica... sono anche un uomo di giustizia! Ma certo!!!

Vedi, mi occupo di separazioni e divorzi.

Quando un cliente viene da me io mi impegno a tutelare i suoi interessi!
Non sono mica uno di quelli che predicano mediazioni, conciliazioni... ma scherziamo!
Quelli sono dei poveri derelitti... sfigati che fanno la fame!
Li vedo che si trascinano in tribunale tutti sudati e male in arnese, coi loro corsi, coi loro master di mediazione del conflitto, pieni di belle teorie... ma tu capisci? Pensano sia possibile divorziare in pace? Ma sono matti?
Per questo fanno la fame: non hanno capito che la gente vuole il sangue, vuole fare male... non vuole accordi.

Come dici? Ma così si dissanguano? Si rovinano la vita con cause che durano 20 anni?
Ma certo!!! E' proprio quello il bello!!!

Il divorzio è una guerra!!! E l'altro deve morire!! Deve cacciare fino all'ultima lira e se non lo fa... giù con denunzie, calunnie, ricatti... va tutto bene!

I figli? Ma che importa, capiranno, se ne faranno una ragione... non sono loro che mi pagano.
Se non se ne interessa il genitore, che vuoi che importi a me?

Sai cosa mi diceva un collega che mi ha insegnato la professione? Un avvocato è come un juke-box: il cliente mette la monetina e l'avvocato parla.

Così deve essere, non è compito mio preoccuparmi del bene o del male, non sono io che devo consigliare il cliente.
Anzi, se proprio devo, lo stuzzico, lo invoglio ed incoraggio a pretendere i suoi diritti, tutti fino all'ultimo! Con ogni mezzo. In fondo il sistema me lo consente, ed io lo faccio.
E loro sono contenti. Li spoglio, li aizzo, li sfrutto. E loro sono contenti.

Credimi: se non lo facessi, se proponessi loro vie mediate, meno violente, se ne andrebbero. Cercherebbero uno più bastardo di me.

Del resto, vuoi mettere la soddisfazione di vedere ridotto sul lastrico il marito che ha osato lasciarti? Le mogli sono in preda all'odio e pagano, hai voglia se pagano... e pure i mariti, quando le cose sono al contrario.

La verità è che è l'odio, caro mio, è l'odio il motore dei soldi, non l'amore.
E' colpa mia se il mondo gira così?
Io mi limito ad essere un meccanismo, ed a trarne il giusto profitto.

I fessi, amico mio, sono loro... non certo io.
Sono loro che si rovinano la vita, sono loro che distruggono i figli, sono loro che si svenano in guerre idiote... sono loro i fessi, ed io ne godo!

Se i clienti mi chiedono la guerra io la guerra gli do, la più grossa possibile, perché chi muore sono loro, ma chi ci guadagna sono io. Ed a me va benissimo così. Oh si che mi va bene!

Ora scusa, ma devo andare. E' tardissimo, ho una riunione col vice commissario alle opere pubbliche di quel paese... c'è una gara da far "vincere", sai com'è...
Ciao, stammi bene!!

(mi saluta, e sgomma via col suo scooterone e la sua abbronzatura. Io rimango qui, col taccuino in mano e la birra finita...)

mercoledì 31 dicembre 2014

Auguri

Auguri

Siamo sempre bravissimi a creare barriere, a trovare mille modi per porre una discontinuità fra noi ed il resto del mondo. Siamo bianchi, siamo neri, siamo uomini siamo donne, siamo mariti e siamo mogli, siamo del Napoli o della Juventus, siamo questo e siamo quello.
Tanto che amiamo le barriere, che siamo diventati bravissimi a costruire mura, palizzate, steccati, fili spinati, castelli, valli, ed ogni altra possibile edificazione difensiva.

Lo facciamo con le armi, e lo facciamo con la legge, usandola a volte piuttosto che per fare giustizia, per fare vendetta o semplicemente per barricarci dietro diritti veri o presunti.

Lo facciamo pure col tempo, quello che scorre, quello che i nostri orologi segnano inesorabilmente ogni istante.
Lo abbiamo diviso in ogni modo per usarlo, manipolarlo... salvo poi prenderne le distanze in un secondo momento, perfino nella memoria: quell'anno è stato orribile, quell'altro triste...

Sempre, barriere, suddivisioni, categorie...

Solo che categorie, barriere, divisioni... sono in effetti il risultato della nostra incapacità di affrontare l'incognito e le sue paure.
Dalla preistoria ad oggi non siamo cambiati: temiamo sempre un universo che percepiamo più grande di noi, e tentiamo di difendercene.
Oggi lo facciamo in modi più tecnologici, forse... ma non per questo meno inefficaci.

La verità invece è che l'universo, la vita, l'esistenza, sono un grande flusso armonico, che non possiamo pretendere di dominare.
Ne facciamo parte, non siamo estranei ad esso.

Dovremmo recuperare la capacità di abbandonarcisi, di nuotarci, senza opporci ma giocandoci, rotolandoci dentro come delfini... catturandone le armonie, senza paura, anche nei momenti più difficili e dolorosi, perché prima o poi la spuma ci riporterà a galla...

Ecco, vorrei augurare a tutti voi, anzi a tutti noi, di imparare ad essere delfini...

Serenità, pace ed armonia per tutti, amici miei!!!

Enrico Franceschetti

lunedì 24 novembre 2014

Giornata internazionale contro la violenza sulle donne: l’ennesima occasione mancata di combattere insieme.

Lo scorso luglio, proprio sulle colonne di questa pagina Diritto & Famiglia, ebbi modo di constatare quanto spaventosi fossero i numeri della violenza familiare e di genere.
In quella occasione, denunziai la vergognosa arretratezza dei dati registrati dall’ISTAT, fermi addirittura al 2006, segno evidente di un disinteresse istituzionale inspiegabile verso il fenomeno.
A distanza di un anno ci ha pensato l’Eu.r.e.s. a diffondere un rapporto relativo agli omicidi di donne in Italia per l’anno 2013.
I numeri sono agghiaccianti: 179 vittime, con un aumento generale del 14% rispetto all’anno precedente.

Nella statistica rientrano in effetti anche i delitti commessi durate atti di criminalità comune (28) di cui la maggior parte rapine, che vedono soccombere soprattutto donne anziane.
Resta però il fatto che ben il 68,2% degli omicidi totali si sono consumati all’interno del contesto familiare, lì dove gli affetti dovrebbero garantire protezione e cura.

Nel 66,4% di tali casi, il carnefice è stato il partner, attuale o ex, anche se un nuovo fenomeno inquietante si sta affacciando all’orizzonte della rilevazione statistica: il matricidio.
Pare infatti che la crisi economica e sociale, costringendo i figli ad un innaturale prolungamento delle convivenze, in qualche modo induca anche una esasperazione letale dei rapporti familiari, tanto da indurre il 18,9% dei delitti commessi contro la madre. Un aumento del 3,7% rispetto agli anni precedenti.

Nel rapporto citato si possono reperire altri dati interessanti, ma ciò per i nostri fini non è indispensabile: quelli citati costituiscono già materiale più che sufficiente per una seria riflessione.

I miei lettori sanno bene quanto io non ami le generalizzazioni, e quanto di solito rifugga dai luoghi comuni che inducono a valutazioni sempre più o meno sottilmente condizionate dalle fonti delle notizie.
I media sono solitamente restii a fornire dati “secchi”, preferendo invece disporli e presentarli al lettore in modo da confermare questa o quella tesi preconfezionata che l’articolista vuole sostenere.

Ad esempio, a mio avviso diffondere i soli dati relativi agli omicidi di donne è un modo non corretto di evidenziare il dramma in atto. 
Per consentire ai fruitori dell’informazione una valutazione realmente libera da preconcetti occorrerebbe diffondere statistiche su tutti gli omicidi e su tutte le violenze occorse in ambito familiare, ivi comprese quelle sui minori, sugli anziani e sugli uomini.

Perché vedete, a mio avviso il vero dramma di questa epoca non è il “femminicidio” (termine detestabile e discriminatorio) ma la violenza in sé, soprattutto quando esercitata in ambito familiare proprio per la sua particolarissima ed anzi unica natura di “culla di affetti ed identità”.
La mia tesi è che “parcellizzare” la denunzia del fenomeno di fatto lo sminuisca, lo indebolisca, lo isoli.

Che una donna sia malmenata, violentata, sfigurata, non è un problema di genere, è un problema di tutti, e solo con una profonda e condivisa presa di coscienza si può affrontare con successo.

Ridurre la lotta al sopruso ed alla sopraffazione ad una questione di donne, significa marginalizzarla, sminuirla, isolarla da un contesto ampio e reale; significa solitudine e debolezza.
Facendone una questione solo femminile, si finisce col rinchiuderla in una dimensione limitata, dove solo alle donne è chiesto di intervenire e cambiare.
Il che, francamente, è inaccettabile.

La violenza offende la coscienza di chiunque, senza limiti di età, sesso, colore della pelle.
La violenza uccide tutti indistintamente, e tanto è più orribile perché è sempre vile, perché sempre colpisce chi, nella sua condizione di vittima, è più debole.
Non è un problema delle donne. No. 
E’ un problema mio, tuo che leggi, nostro, di tutti! Non si vince con ghetti culturali, ma con la condivisione di valori, con la diffusione di sensibilità, con il sostegno forte e duraturo di tutti e di ognuno.

Altrimenti le singole declinazioni della sopraffazione, che possiamo chiamare via via femminicidio, bullismo, omofobia, razzismo, integralismo, ma che sono sempre e solo la stessa cosa, avranno modo di dividerci, di indebolirci, di lasciarci soli a combattere.

Questo non può e non deve accadere, pena la definitiva frantumazione della nostra residua umanità.
Siamo tutti troppo soli, e questo ci rende deboli. Quando lo capiremo?

lunedì 10 novembre 2014

Di certi giudici, legislatori ed avvocati, possiamo fare a meno

lunedì 10 novembre 2014

Francamente il primo a meravigliarsi di quanto sto per dirvi sono io.

Da quando mi sono incamminato sulla difficile ed appassionante strada dell'avvocatura, ho sempre fortemente creduto nel sistema, nel corretto ed equilibrato gioco delle parti, nella terzietà del giudicante sottoposto solo ed esclusivamente dalla legge,  ed alla lungimiranza del legislatore, capace di sintetizzare e strutturare i bisogni del corpo sociale.

Di fronte allo sfacelo compiuto in questi ultimi trenta o quarant'anni, però, mi accorgo che la mia fiducia è ormai mal riposta.

Tre sono i cardini su cui il meccanismo della umana giustizia si articola: un ordinamento ben strutturato, difensori onorabili e capaci, magistrati preparati, imparziali e soggetti esclusivamente alla legge.

Ai miei occhi, nessuno di questi essenziali fulcri oggi è più tale.

Per giustificare il mio pensiero, porterò ad esempio il mondo della famiglia nel modo con il quale viene "amministrato" nelle aule dei tribunali e "trattato" dal legislatore.

La nostra giurisprudenza, ignara del passare dei decenni, continua a teorizzare una forma di famiglia ormai del tutto irreale. 

Nel 2006 il legislatore aveva, senza equivoci, indicato la necessità di affidare i figli, in caso di separazione, alle cure di entrambi i genitori, sia praticamente che nel modo di provvedervi economicamente.

La giurisprudenza, però, ha generalmente ritenuto di poter tranquillamente disapplicare una norma dello stato.
Essa giurisprudenza ha pervicacemente continuato a gravare la gestione dei figli per il 95% dei casi sulla madre, in base ad un preconcetto funzionale fermo agli anni '50, laddove alla donna si riconosceva solo l'onere di gestire figli e casa, mentre all'uomo la possibilità di lavorare e fare carriera, libero dalle incombenze di accudimento domestico.

Risultato? Figli privati di entrambi i genitori, liti furibonde fra gli ex coniugi, madri gravate da oneri insostenibili e discriminatori, padri demotivati e ridotti a meri bancomat.
Insuccesso su tutti i fronti.

Del resto, la medesima giurisprudenza ha pure del tutto disapplicato il principio della contribuzione diretta al mantenimento della prole, con le più fantasiose motivazioni. Io stesso, nella pratica concreta, mi sono sentito rispondere "no avvocato, è troppo difficile!" (mah!) anche quando le parti si presentavano in prefetto accordo fra loro con un piano ben strutturato di ripartizione delle spese.

Ancora, sempre dal punto di vista patrimoniale, la giurisprudenza italiana si distingue con altre interpretazioni davvero "creative" sia pur del tutto inesistenti nel dettato normativo. 
Famosa, per non dire tristemente famigerata, è la soluzione trovata per quantificare il contributo di mantenimento al coniuge più debole; esso deve "consentire il medesimo regime di vita goduto in costanza di matrimonio". 

Su questa terra, non credo esista nessuno capace di dividere la somma dei redditi dei due coniugi, facendo in modo però che ognuna delle singole parti continui ad avere lo stesso valore. 
La saggezza popolare, probabilmente più sperimentata, ammonisce: "se dividi una ricchezza, diventa due povertà".

In effetti un caso diverso c'è: qualcuno provò con successo a moltiplicare pani e pesci. Ma aveva altre e più divine origini.

La nostra giurisprudenza, invece, ritiene di poterlo pretendere dai normali ed umanissimi separati, così da garantire ad uno dei due la stabilità economica "ex ante". Peccato però che l'altro finisca di solito nelle mense della Caritas, per sopravvivere.

Certo, si obietterà, ci sono molti che si sottraggono all'obbligo di contribuzione. Ma ciò ci ricorda il vecchio quesito sulla primogenitura fra l'uovo e la gallina.
Un po’ come accade per le tasse inique: se lo Stato pretende troppo, di fatto incoraggia l'evasione. Allo stesso modo, se la giurisprudenza impone contribuzioni troppo gravose, finisce con l'incoraggiarne l'elusione.

Vogliamo poi parlare del contesto nel quale ci si trova durante un giudizio relativo alla famiglia? 
Tempi biblici, modalità di comparizione quantomeno disagevoli se non addirittura brutali, e contenziosi spesso pretestuosi ed inutili, connotano ogni processo di separazione o divorzio. Per non parlare della generale indifferenza che tutto il sistema riserva alle sensibilità delle parti e dei poveri minori che ci incappano.
Né gli uffici, né certi avvocati, purtroppo, si preoccupano più di tanto delle modalità in cui questi scontri si consumano, con i risultati che ognuno sa. Anzi, per taluni di noi più si combatte violentemente più si guadagna.

Bene.

Ora il legislatore, con un atto davvero coraggioso, aveva tentato di sottrarre le parti, almeno in mancanza di figli minori o economicamente dipendenti, a tutta questa simpatica giostra, attraverso il decreto legge 132 del 2014.
In quel provvedimento, entrato in vigore lo scorso 13 settembre, si è introdotta la c.d. "negoziazione assistita" che consentirebbe alle parti, con l'assistenza( da cui appunto il nome) dei rispettivi legali , di formalizzare un accordo di separazione, di divorzio o di modifica dei relativi patti, in breve tempo e senza lo stress delle aule dei tribunali.

Personalmente, ho fatto appena in tempo a trascrivere un accordo del genere. Ho potuto constatare come le parti siano rimaste davvero, davvero, ed ancora davvero sollevate e soddisfatte dei tempi e dei modi con cui siamo riusciti a far annotare il loro divorzio.

Purtroppo, la legge di conversione, recentemente approvata dal Senato, sembra abbia immediatamente vanificato buona parte di questi vantaggi. 
Pare infatti che per poter ottenere la trascrizione dell'accordo, le parti dovranno sottoporlo preventivamente, sempre e comunque, al "visto" del Pubblico Ministero. 
Che ci siano minori o meno, con buona pace dell'intento di de-giurisdizionalizzare e snellire.
Il che vuol dire che l'ingolfamento oggi dei Tribunali, sarà domani della Procura della Repubblica… e che le parti dovranno nuovamente, inutilmente, ingiustamente attendere mesi e mesi per risolvere il loro problema. Più tempo, più stress, più liti.

Ma a chi importa?

A questo punto, allora, vi propongo una riflessione, fors'anche provocatoria: di fatto il matrimonio, nell'immaginario collettivo, è stato svuotato degli aspetti concettuali (spirituali, politici e sociali) "pubblici" che lo connotavano, sostituiti da un concetto più squisitamente "privato" di famiglia.

In sostanza, in questi tempi vi è famiglia laddove ci sia un nucleo (anche temporaneo) di affetti espressi "more uxorio", che possano essere quindi riconosciuti a coppie di fatto, omosessuali, a famiglie "allargate" o anche monogenitoriali, pur garantiti da una serie di vincoli normativi di tutela.
Se così è, non si capisce a cosa serva più l'intervento ingombrante dello Stato, per mezzo dei suoi vari rappresentanti, che non fanno altro che appesantire, ritardare, aggravare la gestione del contenzioso.

Non sarebbe meglio, allora, avere il coraggio di aprire a patti pre-matrimoniali ben strutturati, che definiscano tutti gli aspetti sia economici che di affidamento dei figli in caso di rottura dell'unione? Di dare spazio a veri e propri moduli e configurazioni  contrattuali che regolino privatamente coppie e famiglie? Di consentire la gestione arbitrale delle eventuali controversie, con l'impegno alle più moderne modalità di mediazione e negoziazione? In altri termini, non sarebbe meglio privatizzare tutto ciò che, in fondo, da sempre è privato: l'ambito degli affetti?
Si limiti l'intervento delle strutture pubbliche solo a difesa degli interessi pubblicamente rilevanti, dei minori, e solo quando realmente lesi.

Oppure?
Fino a qualche tempo fa, avrei auspicato una riforma seria, svincolata da interessi economici o di prestigio di questa o di quella "classe", che affidi a personale con esperienza specifica la trattazione delle questioni familiari, come in un erigendo Tribunale della Famiglia.

Ma ora… ora non vedo alternative: francamente, penso che di certi giudici, di questi legislatori e di certi avvocati, dovremmo davvero (e finalmente) imparare a fare a meno.

giovedì 4 settembre 2014

Le avvocate so megli'e' Pelè!

Care amiche ed amici, miei affezionati lettori, 

considerando il fatto che questo è il primo post che scrivo dopo la pausa estiva, e che quindi, comprensibilmente, non ci si possa aspettare granché... vi prego di compiere un ulteriore sforzo di tolleranza per accogliere la profonda esigenza interiore che mi induce ad una riflessione intimista:
le avvocate so megli'è Pelè!

Per motivarla, consentitemi di presentarmi: il mio nome è Enrico e di mestiere faccio... l'incudine.

Nato una decina di anni prima del famosissimo '68, mi sono trovato a vivere la mia infanzia quando le metodologie montessoriane non erano ancora particolarmente diffuse.

Per capirci, era un'epoca in cui i bambini alle elementari ricevevano ancora sane e vigorose bacchettate sulle gambe e sulle mani (ho frequentato le scuole delle suore Betlemite di cui ho un ricordo meraviglioso nonostante la disciplina piuttosto rigida) e la posizione più tenuta in classe era la c.d. "delle mani in quarta", che consisteva nel costringere gli alunni ad incrociare le braccia dietro allo schienale della sedia, per mezz'ore intere. 
Oggi, usano imporre questa posizione i migliori fra i rapitori di ostaggi.
Suppongo possa intrigare anche gli amanti della letteratura tipo "cinquanta sfumature di... ". Meglio non occuparsene qui, però.

Del resto mia madre se non studiavo (cioè non redigevo bene le mazzarelle sul quaderno), o se piangevo, urlavo, chiedevo un giocattolo... usava la cucchiarella per segnalarmi con vigore sui polpacci la propria disapprovazione. 
Se la cosa diventava seria, ricorreva al celeberrimo "battipanni"; un oggetto davvero singolare, forte ed elastico, capace di lasciare segni brucianti sulla pelle pur senza infliggere danni seri. 

All'epoca i telefonini erano ancora nella fantasia degli scrittori di fantascienza, ed a nessuno di noi veniva in mente che potesse esisterne uno azzurro cui rivolgersi per essere protetti dai maltrattamenti.
In realtà questi comportamenti non erano affatto considerati disdicevoli, ma anzi venivano lodati come manifestazioni di cura e di affetto genitoriale.

Il motto comune era "mazza e panella fanno i figli belli".

Perciò, il mio ruolo era quello di subire senza tante storie e di far tesoro dell'"educazione" impartita. Altre scelte non erano ipotizzabili.

Mio padre, poi, era un tipo tosto. Forse a causa dei suoi trascorsi come graduato nei carristi, concepiva la formazione di un figlio più o meno come quella di una recluta della Wermacht. 
Ed ha continuato ad applicare quelle regole fino al momento in cui ha terminato la sua esperienza terrena.
Un uomo formidabile, credetemi. Un padre formidabile. Ma... tosto.

Soleva ripetermi instancabilmente che in casa sua era lui al comando e non erano previste deroghe. Finchè fossi rimasto "ospite", non avrei avuto alcuna voce in capitolo. Così era e così doveva rimanere.
Finchè sei martello, batti: ma se sei incudine, statti.

Appunto.

Mia madre ha sempre lavorato. Era insegnante, di quelle dedite alla "missione", amatissima dai propri alunni.
Quindi in famiglia le problematiche relative alla parità dei sessi, ed alla suddivisione delle competenze, per me non sono mai esistite, visto che semplicemente non si ponevano.
Entrambi i miei genitori erano lungamente fuori casa, le entrate non erano mai superiori alle uscite, bisognava collaborare tutti, in tutto.
Senza divisioni di genere. E senza coccole per l'unico figlio.


In effetti una certa prevalenza c'era. Mio padre esercitava una autorevolezza "maschile", che non è mai stata messa in discussione.
Devo dire che gli veniva attribuita fondamentalmente per merito; come dicevo prima, era davvero un uomo formidabile. Capace di amministrare tutto con oculatezza. Sapeva prevedere rischi e problemi, e sapeva suggerire le soluzioni giuste. Quindi la sua autorità era essenzialmente morale, e sicura.
Anche in questo, c'era, con tutta evidenza, un martello battente, e.. due incudini.

Vogliamo parlare della scuola?
Quella che ho vissuto io era ancora, largamente, di tipo tradizionale.
E' vero che il periodo del liceo è stato alquanto... come dire... "democratico". 
Ci si occupava molto di più delle assemblee di istituto che non di Leopardi, e si dibatteva intensamente sul diritto al "sei politico".
Ma era più forma che sostanza. Il professore era ancora una figura da temere e se tornavi a casa con una "nota" disciplinare... beh, le conseguenze erano serie, sia fra le mura domestiche che sulla pagella.
I genitori davano per principio ragione agli insegnanti. Se si riceveva un richiamo, prima te le davano, e poi ti chiedevano il perché. Andava così...

Quando giunsi all'università, mi trovai accodato all'ultima ondata di iscritti obbligata ai programmi "tradizionali" (c.d. "statutari"), con docenti che, fermamente e concretamente, manifestavano il proprio dissenso alle richieste "post sessantottine" delle associazioni studentesche. 
Anzi, in qualche modo c'era addirittura una sorta di "mini restaurazione" metodologica.
Risultato? Al mio corso di studi si iscrissero in più di 2000: se ne laurearono a stento 400.

Incudine, anche lì.

Una volta conseguita la laurea, venne fuori il problema del cosa fare.
Mio padre mi voleva impiegato in banca. 
Io invece, chissà perchè, mi innamorai della professione forense, imponendola.
Forse la prima vera ribellione al volere di mio padre, che infatti non me l'ha mai perdonata.

Così, fui mandato a "fare pratica". 
Le raccomandazioni impartitemi furono:
1) non opporti a nessuna richiesta del dominus,
2) renditi indispensabile, presente oltre tutti gli orari e pronto a qualunque lavoro,
3) non intervenire se non sei interrogato, sta al tuo posto ed osserva tutto, per farne tesoro. Nessuno ha l'obbligo di insegnarti niente, sei tu che devi apprendere.
4) Per l'amor di Dio, non permetterti di chiedere soldi. Il tuo valore al momento è pari a zero e se ti si accetta nello studio devi solo ringraziare. In fondo, sei stato ammesso ad un fior di corso di formazione professionale ... ed è già tanto che nessuno ti chieda di pagarlo.

Capirete che l'idea di stare al mio posto senza parlare o ribellarmi era stata ormai ben impressa nel mio animo, perciò non la trovai tanto strana o disdicevole.
Mi limitai semplicemente a continuare a fare ciò che avevo sempre fatto, ovviamente coltivando nel mio intimo la determinazione e la ferma volontà di creare il mio futuro nel momento in cui ne avessi avuto finalmente la forza.

Ad un certo punto, quel momento venne.
Finalmente, il mio lungo e severo "addestramento" alla vita era terminato.

Aprii il mio studio, arredato secondo i miei gusti, e cominciai a lavorare secondo il metodo che avevo maturato negli anni di praticantato.
Già da tempo vivevo da solo, nella casa lasciatami dai miei... dove avevo potuto definire le mie regole, le mie abitudini, le mie piccole manie.

Ero finalmente martello.

Eh.
Non saprei dire in effetti quanto questa illusione sia durata.
Direi poco.  Davvero poco.

Nel frattempo che mi preparavo a diventare il dominatore del mondo, quest'ultimo era cambiato profondamente. Ed io non me n'ero accorto.
Sposandomi, ed avendo una figlia (una meravigliosa figlia), feci presto a scoprire che mia moglie non mi riconosceva alcuna autorevolezza, ma anzi rivendicava la propria con forza e... "per principio"; spesso, dichiarandosi anche sgomenta del fatto che io osassi "non essere d'accordo con lei". Sic!

Scoprii inoltre che i figli ormai non erano più assoggettabili ad alcun tipo di disciplina, ma che anzi eravamo noi genitori ad essere sempre sotto processo, sempre guardati a vista e severamente giudicati da telefoni colorati, docenti montessoriani e pedagoghi d'assalto.
Ora, eravamo noi a doverci inventare "il mestiere", obbligati ad essere sempre pronti ad anticipare, giustificare, comprendere e lenire qualunque bizza filiale, o qualunque loro necessità, ribellione, intemperanza.

E sul lavoro? Beh, sul lavoro... i praticanti avevano conquistato il diritto di chiedere uno stipendio fin dal primo giorno, pur se totalmente inesperti e disinteressati, rifiutando qualunque mansione che non fosse quella di trattare pratiche legali di primo livello. 

Tutto giusto. Non lo nego. Tutto giusto, per carità...

Eppure, nel fondo della mia anima, un piccolo rimpianto per non avere avuto l'occasione di essere martello... non dico assai... giusto un pochino... c'era.
Insomma, ognuno di noi sogna almeno una volta nella vita di poter sbattere i pugni sulla scrivania urlando "si fa come ho detto io"!!

Dai... almeno una volta!!!

E invece... ho dovuto affinare le mie capacità di comprensione, costringendomi alla saggezza ed alla tolleranza d'un guru indiano per puro istinto di sopravvivenza, riconoscendo ad altri diritti (sacrosanti!!) che io, però, non avevo mai avuto.

Chissà, forse questo mi ha reso migliore... o magari ha solo aggravato le condizioni del mio fegato.

Il colmo però è arrivato qualche mese fa, quando una cliente mi ha proposto di assumere la sua difesa in sostituzione di una precedente collega.
Alla mia domanda sui motivi della scelta, lei, un po' imbarazzata, mi fa: "beh avvocato, mi ero rivolta ad una avvocata perché si sa, le donne nelle questioni di famiglia sono le migliori...".

Riuscite ad immaginare la mia espressione?

Cavolo! Non solo non sono mai riuscito ad essere martello, dovendo adattarmi a rimanere incudine tutta la vita... ora mi tocca anche subire una discriminazione di genere nella professione che tanto ho amato e che ho esercitato con passione, dedizione e (consentitemelo) ottimi risultati per oltre trent'anni?!?

Probabilmente tutte le lettrici che hanno avuto la pazienza di seguirmi fin qui staranno pensando: "ahhh, vedi come brucia l'essere discriminate non per le tue capacità ma per il fatto di essere nate di un sesso piuttosto che di un'altro?", sorridendo soddisfatte e finalmente vendicate.

Non posso che concordare. Oggettivamente, non è piacevole. Ed è anche un tantinello stupido.

Perciò, visto come stanno le cose, temo che dovrò ancora una volta farmene una ragione.
Quindi, lasciatemelo dire: di mestiere faccio l'incudine e... le avvocate, so' megli'e Pelè!!!

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P.S. Giusto per cronaca: la cliente ora si dichiara soddisfatta delle mie prestazioni professionali. Forse, sono riuscito a dimostrarle che anche noi uomini, se ben motivati, valiamo almeno quanto le nostre colleghe. Ma che fatica...!


P.P.S. Sapete? Alla fine ho deciso che essere incudine non è affatto male. Si diventa tosti, solidi, affidabili.
Di martelli, ne spezzi molti... mentre l'incudine resta lì e forgia magnifiche spade.
E comunque, se una incudine si incazza... sono guai!!! 
No, non è male essere incudine.