lunedì 10 novembre 2014

Di certi giudici, legislatori ed avvocati, possiamo fare a meno

lunedì 10 novembre 2014

Francamente il primo a meravigliarsi di quanto sto per dirvi sono io.

Da quando mi sono incamminato sulla difficile ed appassionante strada dell'avvocatura, ho sempre fortemente creduto nel sistema, nel corretto ed equilibrato gioco delle parti, nella terzietà del giudicante sottoposto solo ed esclusivamente dalla legge,  ed alla lungimiranza del legislatore, capace di sintetizzare e strutturare i bisogni del corpo sociale.

Di fronte allo sfacelo compiuto in questi ultimi trenta o quarant'anni, però, mi accorgo che la mia fiducia è ormai mal riposta.

Tre sono i cardini su cui il meccanismo della umana giustizia si articola: un ordinamento ben strutturato, difensori onorabili e capaci, magistrati preparati, imparziali e soggetti esclusivamente alla legge.

Ai miei occhi, nessuno di questi essenziali fulcri oggi è più tale.

Per giustificare il mio pensiero, porterò ad esempio il mondo della famiglia nel modo con il quale viene "amministrato" nelle aule dei tribunali e "trattato" dal legislatore.

La nostra giurisprudenza, ignara del passare dei decenni, continua a teorizzare una forma di famiglia ormai del tutto irreale. 

Nel 2006 il legislatore aveva, senza equivoci, indicato la necessità di affidare i figli, in caso di separazione, alle cure di entrambi i genitori, sia praticamente che nel modo di provvedervi economicamente.

La giurisprudenza, però, ha generalmente ritenuto di poter tranquillamente disapplicare una norma dello stato.
Essa giurisprudenza ha pervicacemente continuato a gravare la gestione dei figli per il 95% dei casi sulla madre, in base ad un preconcetto funzionale fermo agli anni '50, laddove alla donna si riconosceva solo l'onere di gestire figli e casa, mentre all'uomo la possibilità di lavorare e fare carriera, libero dalle incombenze di accudimento domestico.

Risultato? Figli privati di entrambi i genitori, liti furibonde fra gli ex coniugi, madri gravate da oneri insostenibili e discriminatori, padri demotivati e ridotti a meri bancomat.
Insuccesso su tutti i fronti.

Del resto, la medesima giurisprudenza ha pure del tutto disapplicato il principio della contribuzione diretta al mantenimento della prole, con le più fantasiose motivazioni. Io stesso, nella pratica concreta, mi sono sentito rispondere "no avvocato, è troppo difficile!" (mah!) anche quando le parti si presentavano in prefetto accordo fra loro con un piano ben strutturato di ripartizione delle spese.

Ancora, sempre dal punto di vista patrimoniale, la giurisprudenza italiana si distingue con altre interpretazioni davvero "creative" sia pur del tutto inesistenti nel dettato normativo. 
Famosa, per non dire tristemente famigerata, è la soluzione trovata per quantificare il contributo di mantenimento al coniuge più debole; esso deve "consentire il medesimo regime di vita goduto in costanza di matrimonio". 

Su questa terra, non credo esista nessuno capace di dividere la somma dei redditi dei due coniugi, facendo in modo però che ognuna delle singole parti continui ad avere lo stesso valore. 
La saggezza popolare, probabilmente più sperimentata, ammonisce: "se dividi una ricchezza, diventa due povertà".

In effetti un caso diverso c'è: qualcuno provò con successo a moltiplicare pani e pesci. Ma aveva altre e più divine origini.

La nostra giurisprudenza, invece, ritiene di poterlo pretendere dai normali ed umanissimi separati, così da garantire ad uno dei due la stabilità economica "ex ante". Peccato però che l'altro finisca di solito nelle mense della Caritas, per sopravvivere.

Certo, si obietterà, ci sono molti che si sottraggono all'obbligo di contribuzione. Ma ciò ci ricorda il vecchio quesito sulla primogenitura fra l'uovo e la gallina.
Un po’ come accade per le tasse inique: se lo Stato pretende troppo, di fatto incoraggia l'evasione. Allo stesso modo, se la giurisprudenza impone contribuzioni troppo gravose, finisce con l'incoraggiarne l'elusione.

Vogliamo poi parlare del contesto nel quale ci si trova durante un giudizio relativo alla famiglia? 
Tempi biblici, modalità di comparizione quantomeno disagevoli se non addirittura brutali, e contenziosi spesso pretestuosi ed inutili, connotano ogni processo di separazione o divorzio. Per non parlare della generale indifferenza che tutto il sistema riserva alle sensibilità delle parti e dei poveri minori che ci incappano.
Né gli uffici, né certi avvocati, purtroppo, si preoccupano più di tanto delle modalità in cui questi scontri si consumano, con i risultati che ognuno sa. Anzi, per taluni di noi più si combatte violentemente più si guadagna.

Bene.

Ora il legislatore, con un atto davvero coraggioso, aveva tentato di sottrarre le parti, almeno in mancanza di figli minori o economicamente dipendenti, a tutta questa simpatica giostra, attraverso il decreto legge 132 del 2014.
In quel provvedimento, entrato in vigore lo scorso 13 settembre, si è introdotta la c.d. "negoziazione assistita" che consentirebbe alle parti, con l'assistenza( da cui appunto il nome) dei rispettivi legali , di formalizzare un accordo di separazione, di divorzio o di modifica dei relativi patti, in breve tempo e senza lo stress delle aule dei tribunali.

Personalmente, ho fatto appena in tempo a trascrivere un accordo del genere. Ho potuto constatare come le parti siano rimaste davvero, davvero, ed ancora davvero sollevate e soddisfatte dei tempi e dei modi con cui siamo riusciti a far annotare il loro divorzio.

Purtroppo, la legge di conversione, recentemente approvata dal Senato, sembra abbia immediatamente vanificato buona parte di questi vantaggi. 
Pare infatti che per poter ottenere la trascrizione dell'accordo, le parti dovranno sottoporlo preventivamente, sempre e comunque, al "visto" del Pubblico Ministero. 
Che ci siano minori o meno, con buona pace dell'intento di de-giurisdizionalizzare e snellire.
Il che vuol dire che l'ingolfamento oggi dei Tribunali, sarà domani della Procura della Repubblica… e che le parti dovranno nuovamente, inutilmente, ingiustamente attendere mesi e mesi per risolvere il loro problema. Più tempo, più stress, più liti.

Ma a chi importa?

A questo punto, allora, vi propongo una riflessione, fors'anche provocatoria: di fatto il matrimonio, nell'immaginario collettivo, è stato svuotato degli aspetti concettuali (spirituali, politici e sociali) "pubblici" che lo connotavano, sostituiti da un concetto più squisitamente "privato" di famiglia.

In sostanza, in questi tempi vi è famiglia laddove ci sia un nucleo (anche temporaneo) di affetti espressi "more uxorio", che possano essere quindi riconosciuti a coppie di fatto, omosessuali, a famiglie "allargate" o anche monogenitoriali, pur garantiti da una serie di vincoli normativi di tutela.
Se così è, non si capisce a cosa serva più l'intervento ingombrante dello Stato, per mezzo dei suoi vari rappresentanti, che non fanno altro che appesantire, ritardare, aggravare la gestione del contenzioso.

Non sarebbe meglio, allora, avere il coraggio di aprire a patti pre-matrimoniali ben strutturati, che definiscano tutti gli aspetti sia economici che di affidamento dei figli in caso di rottura dell'unione? Di dare spazio a veri e propri moduli e configurazioni  contrattuali che regolino privatamente coppie e famiglie? Di consentire la gestione arbitrale delle eventuali controversie, con l'impegno alle più moderne modalità di mediazione e negoziazione? In altri termini, non sarebbe meglio privatizzare tutto ciò che, in fondo, da sempre è privato: l'ambito degli affetti?
Si limiti l'intervento delle strutture pubbliche solo a difesa degli interessi pubblicamente rilevanti, dei minori, e solo quando realmente lesi.

Oppure?
Fino a qualche tempo fa, avrei auspicato una riforma seria, svincolata da interessi economici o di prestigio di questa o di quella "classe", che affidi a personale con esperienza specifica la trattazione delle questioni familiari, come in un erigendo Tribunale della Famiglia.

Ma ora… ora non vedo alternative: francamente, penso che di certi giudici, di questi legislatori e di certi avvocati, dovremmo davvero (e finalmente) imparare a fare a meno.

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