mercoledì 31 dicembre 2014

Auguri

Auguri

Siamo sempre bravissimi a creare barriere, a trovare mille modi per porre una discontinuità fra noi ed il resto del mondo. Siamo bianchi, siamo neri, siamo uomini siamo donne, siamo mariti e siamo mogli, siamo del Napoli o della Juventus, siamo questo e siamo quello.
Tanto che amiamo le barriere, che siamo diventati bravissimi a costruire mura, palizzate, steccati, fili spinati, castelli, valli, ed ogni altra possibile edificazione difensiva.

Lo facciamo con le armi, e lo facciamo con la legge, usandola a volte piuttosto che per fare giustizia, per fare vendetta o semplicemente per barricarci dietro diritti veri o presunti.

Lo facciamo pure col tempo, quello che scorre, quello che i nostri orologi segnano inesorabilmente ogni istante.
Lo abbiamo diviso in ogni modo per usarlo, manipolarlo... salvo poi prenderne le distanze in un secondo momento, perfino nella memoria: quell'anno è stato orribile, quell'altro triste...

Sempre, barriere, suddivisioni, categorie...

Solo che categorie, barriere, divisioni... sono in effetti il risultato della nostra incapacità di affrontare l'incognito e le sue paure.
Dalla preistoria ad oggi non siamo cambiati: temiamo sempre un universo che percepiamo più grande di noi, e tentiamo di difendercene.
Oggi lo facciamo in modi più tecnologici, forse... ma non per questo meno inefficaci.

La verità invece è che l'universo, la vita, l'esistenza, sono un grande flusso armonico, che non possiamo pretendere di dominare.
Ne facciamo parte, non siamo estranei ad esso.

Dovremmo recuperare la capacità di abbandonarcisi, di nuotarci, senza opporci ma giocandoci, rotolandoci dentro come delfini... catturandone le armonie, senza paura, anche nei momenti più difficili e dolorosi, perché prima o poi la spuma ci riporterà a galla...

Ecco, vorrei augurare a tutti voi, anzi a tutti noi, di imparare ad essere delfini...

Serenità, pace ed armonia per tutti, amici miei!!!

Enrico Franceschetti

lunedì 24 novembre 2014

Giornata internazionale contro la violenza sulle donne: l’ennesima occasione mancata di combattere insieme.

Lo scorso luglio, proprio sulle colonne di questa pagina Diritto & Famiglia, ebbi modo di constatare quanto spaventosi fossero i numeri della violenza familiare e di genere.
In quella occasione, denunziai la vergognosa arretratezza dei dati registrati dall’ISTAT, fermi addirittura al 2006, segno evidente di un disinteresse istituzionale inspiegabile verso il fenomeno.
A distanza di un anno ci ha pensato l’Eu.r.e.s. a diffondere un rapporto relativo agli omicidi di donne in Italia per l’anno 2013.
I numeri sono agghiaccianti: 179 vittime, con un aumento generale del 14% rispetto all’anno precedente.

Nella statistica rientrano in effetti anche i delitti commessi durate atti di criminalità comune (28) di cui la maggior parte rapine, che vedono soccombere soprattutto donne anziane.
Resta però il fatto che ben il 68,2% degli omicidi totali si sono consumati all’interno del contesto familiare, lì dove gli affetti dovrebbero garantire protezione e cura.

Nel 66,4% di tali casi, il carnefice è stato il partner, attuale o ex, anche se un nuovo fenomeno inquietante si sta affacciando all’orizzonte della rilevazione statistica: il matricidio.
Pare infatti che la crisi economica e sociale, costringendo i figli ad un innaturale prolungamento delle convivenze, in qualche modo induca anche una esasperazione letale dei rapporti familiari, tanto da indurre il 18,9% dei delitti commessi contro la madre. Un aumento del 3,7% rispetto agli anni precedenti.

Nel rapporto citato si possono reperire altri dati interessanti, ma ciò per i nostri fini non è indispensabile: quelli citati costituiscono già materiale più che sufficiente per una seria riflessione.

I miei lettori sanno bene quanto io non ami le generalizzazioni, e quanto di solito rifugga dai luoghi comuni che inducono a valutazioni sempre più o meno sottilmente condizionate dalle fonti delle notizie.
I media sono solitamente restii a fornire dati “secchi”, preferendo invece disporli e presentarli al lettore in modo da confermare questa o quella tesi preconfezionata che l’articolista vuole sostenere.

Ad esempio, a mio avviso diffondere i soli dati relativi agli omicidi di donne è un modo non corretto di evidenziare il dramma in atto. 
Per consentire ai fruitori dell’informazione una valutazione realmente libera da preconcetti occorrerebbe diffondere statistiche su tutti gli omicidi e su tutte le violenze occorse in ambito familiare, ivi comprese quelle sui minori, sugli anziani e sugli uomini.

Perché vedete, a mio avviso il vero dramma di questa epoca non è il “femminicidio” (termine detestabile e discriminatorio) ma la violenza in sé, soprattutto quando esercitata in ambito familiare proprio per la sua particolarissima ed anzi unica natura di “culla di affetti ed identità”.
La mia tesi è che “parcellizzare” la denunzia del fenomeno di fatto lo sminuisca, lo indebolisca, lo isoli.

Che una donna sia malmenata, violentata, sfigurata, non è un problema di genere, è un problema di tutti, e solo con una profonda e condivisa presa di coscienza si può affrontare con successo.

Ridurre la lotta al sopruso ed alla sopraffazione ad una questione di donne, significa marginalizzarla, sminuirla, isolarla da un contesto ampio e reale; significa solitudine e debolezza.
Facendone una questione solo femminile, si finisce col rinchiuderla in una dimensione limitata, dove solo alle donne è chiesto di intervenire e cambiare.
Il che, francamente, è inaccettabile.

La violenza offende la coscienza di chiunque, senza limiti di età, sesso, colore della pelle.
La violenza uccide tutti indistintamente, e tanto è più orribile perché è sempre vile, perché sempre colpisce chi, nella sua condizione di vittima, è più debole.
Non è un problema delle donne. No. 
E’ un problema mio, tuo che leggi, nostro, di tutti! Non si vince con ghetti culturali, ma con la condivisione di valori, con la diffusione di sensibilità, con il sostegno forte e duraturo di tutti e di ognuno.

Altrimenti le singole declinazioni della sopraffazione, che possiamo chiamare via via femminicidio, bullismo, omofobia, razzismo, integralismo, ma che sono sempre e solo la stessa cosa, avranno modo di dividerci, di indebolirci, di lasciarci soli a combattere.

Questo non può e non deve accadere, pena la definitiva frantumazione della nostra residua umanità.
Siamo tutti troppo soli, e questo ci rende deboli. Quando lo capiremo?

lunedì 10 novembre 2014

Di certi giudici, legislatori ed avvocati, possiamo fare a meno

lunedì 10 novembre 2014

Francamente il primo a meravigliarsi di quanto sto per dirvi sono io.

Da quando mi sono incamminato sulla difficile ed appassionante strada dell'avvocatura, ho sempre fortemente creduto nel sistema, nel corretto ed equilibrato gioco delle parti, nella terzietà del giudicante sottoposto solo ed esclusivamente dalla legge,  ed alla lungimiranza del legislatore, capace di sintetizzare e strutturare i bisogni del corpo sociale.

Di fronte allo sfacelo compiuto in questi ultimi trenta o quarant'anni, però, mi accorgo che la mia fiducia è ormai mal riposta.

Tre sono i cardini su cui il meccanismo della umana giustizia si articola: un ordinamento ben strutturato, difensori onorabili e capaci, magistrati preparati, imparziali e soggetti esclusivamente alla legge.

Ai miei occhi, nessuno di questi essenziali fulcri oggi è più tale.

Per giustificare il mio pensiero, porterò ad esempio il mondo della famiglia nel modo con il quale viene "amministrato" nelle aule dei tribunali e "trattato" dal legislatore.

La nostra giurisprudenza, ignara del passare dei decenni, continua a teorizzare una forma di famiglia ormai del tutto irreale. 

Nel 2006 il legislatore aveva, senza equivoci, indicato la necessità di affidare i figli, in caso di separazione, alle cure di entrambi i genitori, sia praticamente che nel modo di provvedervi economicamente.

La giurisprudenza, però, ha generalmente ritenuto di poter tranquillamente disapplicare una norma dello stato.
Essa giurisprudenza ha pervicacemente continuato a gravare la gestione dei figli per il 95% dei casi sulla madre, in base ad un preconcetto funzionale fermo agli anni '50, laddove alla donna si riconosceva solo l'onere di gestire figli e casa, mentre all'uomo la possibilità di lavorare e fare carriera, libero dalle incombenze di accudimento domestico.

Risultato? Figli privati di entrambi i genitori, liti furibonde fra gli ex coniugi, madri gravate da oneri insostenibili e discriminatori, padri demotivati e ridotti a meri bancomat.
Insuccesso su tutti i fronti.

Del resto, la medesima giurisprudenza ha pure del tutto disapplicato il principio della contribuzione diretta al mantenimento della prole, con le più fantasiose motivazioni. Io stesso, nella pratica concreta, mi sono sentito rispondere "no avvocato, è troppo difficile!" (mah!) anche quando le parti si presentavano in prefetto accordo fra loro con un piano ben strutturato di ripartizione delle spese.

Ancora, sempre dal punto di vista patrimoniale, la giurisprudenza italiana si distingue con altre interpretazioni davvero "creative" sia pur del tutto inesistenti nel dettato normativo. 
Famosa, per non dire tristemente famigerata, è la soluzione trovata per quantificare il contributo di mantenimento al coniuge più debole; esso deve "consentire il medesimo regime di vita goduto in costanza di matrimonio". 

Su questa terra, non credo esista nessuno capace di dividere la somma dei redditi dei due coniugi, facendo in modo però che ognuna delle singole parti continui ad avere lo stesso valore. 
La saggezza popolare, probabilmente più sperimentata, ammonisce: "se dividi una ricchezza, diventa due povertà".

In effetti un caso diverso c'è: qualcuno provò con successo a moltiplicare pani e pesci. Ma aveva altre e più divine origini.

La nostra giurisprudenza, invece, ritiene di poterlo pretendere dai normali ed umanissimi separati, così da garantire ad uno dei due la stabilità economica "ex ante". Peccato però che l'altro finisca di solito nelle mense della Caritas, per sopravvivere.

Certo, si obietterà, ci sono molti che si sottraggono all'obbligo di contribuzione. Ma ciò ci ricorda il vecchio quesito sulla primogenitura fra l'uovo e la gallina.
Un po’ come accade per le tasse inique: se lo Stato pretende troppo, di fatto incoraggia l'evasione. Allo stesso modo, se la giurisprudenza impone contribuzioni troppo gravose, finisce con l'incoraggiarne l'elusione.

Vogliamo poi parlare del contesto nel quale ci si trova durante un giudizio relativo alla famiglia? 
Tempi biblici, modalità di comparizione quantomeno disagevoli se non addirittura brutali, e contenziosi spesso pretestuosi ed inutili, connotano ogni processo di separazione o divorzio. Per non parlare della generale indifferenza che tutto il sistema riserva alle sensibilità delle parti e dei poveri minori che ci incappano.
Né gli uffici, né certi avvocati, purtroppo, si preoccupano più di tanto delle modalità in cui questi scontri si consumano, con i risultati che ognuno sa. Anzi, per taluni di noi più si combatte violentemente più si guadagna.

Bene.

Ora il legislatore, con un atto davvero coraggioso, aveva tentato di sottrarre le parti, almeno in mancanza di figli minori o economicamente dipendenti, a tutta questa simpatica giostra, attraverso il decreto legge 132 del 2014.
In quel provvedimento, entrato in vigore lo scorso 13 settembre, si è introdotta la c.d. "negoziazione assistita" che consentirebbe alle parti, con l'assistenza( da cui appunto il nome) dei rispettivi legali , di formalizzare un accordo di separazione, di divorzio o di modifica dei relativi patti, in breve tempo e senza lo stress delle aule dei tribunali.

Personalmente, ho fatto appena in tempo a trascrivere un accordo del genere. Ho potuto constatare come le parti siano rimaste davvero, davvero, ed ancora davvero sollevate e soddisfatte dei tempi e dei modi con cui siamo riusciti a far annotare il loro divorzio.

Purtroppo, la legge di conversione, recentemente approvata dal Senato, sembra abbia immediatamente vanificato buona parte di questi vantaggi. 
Pare infatti che per poter ottenere la trascrizione dell'accordo, le parti dovranno sottoporlo preventivamente, sempre e comunque, al "visto" del Pubblico Ministero. 
Che ci siano minori o meno, con buona pace dell'intento di de-giurisdizionalizzare e snellire.
Il che vuol dire che l'ingolfamento oggi dei Tribunali, sarà domani della Procura della Repubblica… e che le parti dovranno nuovamente, inutilmente, ingiustamente attendere mesi e mesi per risolvere il loro problema. Più tempo, più stress, più liti.

Ma a chi importa?

A questo punto, allora, vi propongo una riflessione, fors'anche provocatoria: di fatto il matrimonio, nell'immaginario collettivo, è stato svuotato degli aspetti concettuali (spirituali, politici e sociali) "pubblici" che lo connotavano, sostituiti da un concetto più squisitamente "privato" di famiglia.

In sostanza, in questi tempi vi è famiglia laddove ci sia un nucleo (anche temporaneo) di affetti espressi "more uxorio", che possano essere quindi riconosciuti a coppie di fatto, omosessuali, a famiglie "allargate" o anche monogenitoriali, pur garantiti da una serie di vincoli normativi di tutela.
Se così è, non si capisce a cosa serva più l'intervento ingombrante dello Stato, per mezzo dei suoi vari rappresentanti, che non fanno altro che appesantire, ritardare, aggravare la gestione del contenzioso.

Non sarebbe meglio, allora, avere il coraggio di aprire a patti pre-matrimoniali ben strutturati, che definiscano tutti gli aspetti sia economici che di affidamento dei figli in caso di rottura dell'unione? Di dare spazio a veri e propri moduli e configurazioni  contrattuali che regolino privatamente coppie e famiglie? Di consentire la gestione arbitrale delle eventuali controversie, con l'impegno alle più moderne modalità di mediazione e negoziazione? In altri termini, non sarebbe meglio privatizzare tutto ciò che, in fondo, da sempre è privato: l'ambito degli affetti?
Si limiti l'intervento delle strutture pubbliche solo a difesa degli interessi pubblicamente rilevanti, dei minori, e solo quando realmente lesi.

Oppure?
Fino a qualche tempo fa, avrei auspicato una riforma seria, svincolata da interessi economici o di prestigio di questa o di quella "classe", che affidi a personale con esperienza specifica la trattazione delle questioni familiari, come in un erigendo Tribunale della Famiglia.

Ma ora… ora non vedo alternative: francamente, penso che di certi giudici, di questi legislatori e di certi avvocati, dovremmo davvero (e finalmente) imparare a fare a meno.

giovedì 4 settembre 2014

Le avvocate so megli'e' Pelè!

Care amiche ed amici, miei affezionati lettori, 

considerando il fatto che questo è il primo post che scrivo dopo la pausa estiva, e che quindi, comprensibilmente, non ci si possa aspettare granché... vi prego di compiere un ulteriore sforzo di tolleranza per accogliere la profonda esigenza interiore che mi induce ad una riflessione intimista:
le avvocate so megli'è Pelè!

Per motivarla, consentitemi di presentarmi: il mio nome è Enrico e di mestiere faccio... l'incudine.

Nato una decina di anni prima del famosissimo '68, mi sono trovato a vivere la mia infanzia quando le metodologie montessoriane non erano ancora particolarmente diffuse.

Per capirci, era un'epoca in cui i bambini alle elementari ricevevano ancora sane e vigorose bacchettate sulle gambe e sulle mani (ho frequentato le scuole delle suore Betlemite di cui ho un ricordo meraviglioso nonostante la disciplina piuttosto rigida) e la posizione più tenuta in classe era la c.d. "delle mani in quarta", che consisteva nel costringere gli alunni ad incrociare le braccia dietro allo schienale della sedia, per mezz'ore intere. 
Oggi, usano imporre questa posizione i migliori fra i rapitori di ostaggi.
Suppongo possa intrigare anche gli amanti della letteratura tipo "cinquanta sfumature di... ". Meglio non occuparsene qui, però.

Del resto mia madre se non studiavo (cioè non redigevo bene le mazzarelle sul quaderno), o se piangevo, urlavo, chiedevo un giocattolo... usava la cucchiarella per segnalarmi con vigore sui polpacci la propria disapprovazione. 
Se la cosa diventava seria, ricorreva al celeberrimo "battipanni"; un oggetto davvero singolare, forte ed elastico, capace di lasciare segni brucianti sulla pelle pur senza infliggere danni seri. 

All'epoca i telefonini erano ancora nella fantasia degli scrittori di fantascienza, ed a nessuno di noi veniva in mente che potesse esisterne uno azzurro cui rivolgersi per essere protetti dai maltrattamenti.
In realtà questi comportamenti non erano affatto considerati disdicevoli, ma anzi venivano lodati come manifestazioni di cura e di affetto genitoriale.

Il motto comune era "mazza e panella fanno i figli belli".

Perciò, il mio ruolo era quello di subire senza tante storie e di far tesoro dell'"educazione" impartita. Altre scelte non erano ipotizzabili.

Mio padre, poi, era un tipo tosto. Forse a causa dei suoi trascorsi come graduato nei carristi, concepiva la formazione di un figlio più o meno come quella di una recluta della Wermacht. 
Ed ha continuato ad applicare quelle regole fino al momento in cui ha terminato la sua esperienza terrena.
Un uomo formidabile, credetemi. Un padre formidabile. Ma... tosto.

Soleva ripetermi instancabilmente che in casa sua era lui al comando e non erano previste deroghe. Finchè fossi rimasto "ospite", non avrei avuto alcuna voce in capitolo. Così era e così doveva rimanere.
Finchè sei martello, batti: ma se sei incudine, statti.

Appunto.

Mia madre ha sempre lavorato. Era insegnante, di quelle dedite alla "missione", amatissima dai propri alunni.
Quindi in famiglia le problematiche relative alla parità dei sessi, ed alla suddivisione delle competenze, per me non sono mai esistite, visto che semplicemente non si ponevano.
Entrambi i miei genitori erano lungamente fuori casa, le entrate non erano mai superiori alle uscite, bisognava collaborare tutti, in tutto.
Senza divisioni di genere. E senza coccole per l'unico figlio.


In effetti una certa prevalenza c'era. Mio padre esercitava una autorevolezza "maschile", che non è mai stata messa in discussione.
Devo dire che gli veniva attribuita fondamentalmente per merito; come dicevo prima, era davvero un uomo formidabile. Capace di amministrare tutto con oculatezza. Sapeva prevedere rischi e problemi, e sapeva suggerire le soluzioni giuste. Quindi la sua autorità era essenzialmente morale, e sicura.
Anche in questo, c'era, con tutta evidenza, un martello battente, e.. due incudini.

Vogliamo parlare della scuola?
Quella che ho vissuto io era ancora, largamente, di tipo tradizionale.
E' vero che il periodo del liceo è stato alquanto... come dire... "democratico". 
Ci si occupava molto di più delle assemblee di istituto che non di Leopardi, e si dibatteva intensamente sul diritto al "sei politico".
Ma era più forma che sostanza. Il professore era ancora una figura da temere e se tornavi a casa con una "nota" disciplinare... beh, le conseguenze erano serie, sia fra le mura domestiche che sulla pagella.
I genitori davano per principio ragione agli insegnanti. Se si riceveva un richiamo, prima te le davano, e poi ti chiedevano il perché. Andava così...

Quando giunsi all'università, mi trovai accodato all'ultima ondata di iscritti obbligata ai programmi "tradizionali" (c.d. "statutari"), con docenti che, fermamente e concretamente, manifestavano il proprio dissenso alle richieste "post sessantottine" delle associazioni studentesche. 
Anzi, in qualche modo c'era addirittura una sorta di "mini restaurazione" metodologica.
Risultato? Al mio corso di studi si iscrissero in più di 2000: se ne laurearono a stento 400.

Incudine, anche lì.

Una volta conseguita la laurea, venne fuori il problema del cosa fare.
Mio padre mi voleva impiegato in banca. 
Io invece, chissà perchè, mi innamorai della professione forense, imponendola.
Forse la prima vera ribellione al volere di mio padre, che infatti non me l'ha mai perdonata.

Così, fui mandato a "fare pratica". 
Le raccomandazioni impartitemi furono:
1) non opporti a nessuna richiesta del dominus,
2) renditi indispensabile, presente oltre tutti gli orari e pronto a qualunque lavoro,
3) non intervenire se non sei interrogato, sta al tuo posto ed osserva tutto, per farne tesoro. Nessuno ha l'obbligo di insegnarti niente, sei tu che devi apprendere.
4) Per l'amor di Dio, non permetterti di chiedere soldi. Il tuo valore al momento è pari a zero e se ti si accetta nello studio devi solo ringraziare. In fondo, sei stato ammesso ad un fior di corso di formazione professionale ... ed è già tanto che nessuno ti chieda di pagarlo.

Capirete che l'idea di stare al mio posto senza parlare o ribellarmi era stata ormai ben impressa nel mio animo, perciò non la trovai tanto strana o disdicevole.
Mi limitai semplicemente a continuare a fare ciò che avevo sempre fatto, ovviamente coltivando nel mio intimo la determinazione e la ferma volontà di creare il mio futuro nel momento in cui ne avessi avuto finalmente la forza.

Ad un certo punto, quel momento venne.
Finalmente, il mio lungo e severo "addestramento" alla vita era terminato.

Aprii il mio studio, arredato secondo i miei gusti, e cominciai a lavorare secondo il metodo che avevo maturato negli anni di praticantato.
Già da tempo vivevo da solo, nella casa lasciatami dai miei... dove avevo potuto definire le mie regole, le mie abitudini, le mie piccole manie.

Ero finalmente martello.

Eh.
Non saprei dire in effetti quanto questa illusione sia durata.
Direi poco.  Davvero poco.

Nel frattempo che mi preparavo a diventare il dominatore del mondo, quest'ultimo era cambiato profondamente. Ed io non me n'ero accorto.
Sposandomi, ed avendo una figlia (una meravigliosa figlia), feci presto a scoprire che mia moglie non mi riconosceva alcuna autorevolezza, ma anzi rivendicava la propria con forza e... "per principio"; spesso, dichiarandosi anche sgomenta del fatto che io osassi "non essere d'accordo con lei". Sic!

Scoprii inoltre che i figli ormai non erano più assoggettabili ad alcun tipo di disciplina, ma che anzi eravamo noi genitori ad essere sempre sotto processo, sempre guardati a vista e severamente giudicati da telefoni colorati, docenti montessoriani e pedagoghi d'assalto.
Ora, eravamo noi a doverci inventare "il mestiere", obbligati ad essere sempre pronti ad anticipare, giustificare, comprendere e lenire qualunque bizza filiale, o qualunque loro necessità, ribellione, intemperanza.

E sul lavoro? Beh, sul lavoro... i praticanti avevano conquistato il diritto di chiedere uno stipendio fin dal primo giorno, pur se totalmente inesperti e disinteressati, rifiutando qualunque mansione che non fosse quella di trattare pratiche legali di primo livello. 

Tutto giusto. Non lo nego. Tutto giusto, per carità...

Eppure, nel fondo della mia anima, un piccolo rimpianto per non avere avuto l'occasione di essere martello... non dico assai... giusto un pochino... c'era.
Insomma, ognuno di noi sogna almeno una volta nella vita di poter sbattere i pugni sulla scrivania urlando "si fa come ho detto io"!!

Dai... almeno una volta!!!

E invece... ho dovuto affinare le mie capacità di comprensione, costringendomi alla saggezza ed alla tolleranza d'un guru indiano per puro istinto di sopravvivenza, riconoscendo ad altri diritti (sacrosanti!!) che io, però, non avevo mai avuto.

Chissà, forse questo mi ha reso migliore... o magari ha solo aggravato le condizioni del mio fegato.

Il colmo però è arrivato qualche mese fa, quando una cliente mi ha proposto di assumere la sua difesa in sostituzione di una precedente collega.
Alla mia domanda sui motivi della scelta, lei, un po' imbarazzata, mi fa: "beh avvocato, mi ero rivolta ad una avvocata perché si sa, le donne nelle questioni di famiglia sono le migliori...".

Riuscite ad immaginare la mia espressione?

Cavolo! Non solo non sono mai riuscito ad essere martello, dovendo adattarmi a rimanere incudine tutta la vita... ora mi tocca anche subire una discriminazione di genere nella professione che tanto ho amato e che ho esercitato con passione, dedizione e (consentitemelo) ottimi risultati per oltre trent'anni?!?

Probabilmente tutte le lettrici che hanno avuto la pazienza di seguirmi fin qui staranno pensando: "ahhh, vedi come brucia l'essere discriminate non per le tue capacità ma per il fatto di essere nate di un sesso piuttosto che di un'altro?", sorridendo soddisfatte e finalmente vendicate.

Non posso che concordare. Oggettivamente, non è piacevole. Ed è anche un tantinello stupido.

Perciò, visto come stanno le cose, temo che dovrò ancora una volta farmene una ragione.
Quindi, lasciatemelo dire: di mestiere faccio l'incudine e... le avvocate, so' megli'e Pelè!!!

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P.S. Giusto per cronaca: la cliente ora si dichiara soddisfatta delle mie prestazioni professionali. Forse, sono riuscito a dimostrarle che anche noi uomini, se ben motivati, valiamo almeno quanto le nostre colleghe. Ma che fatica...!


P.P.S. Sapete? Alla fine ho deciso che essere incudine non è affatto male. Si diventa tosti, solidi, affidabili.
Di martelli, ne spezzi molti... mentre l'incudine resta lì e forgia magnifiche spade.
E comunque, se una incudine si incazza... sono guai!!! 
No, non è male essere incudine.

domenica 20 luglio 2014

Il divorzio politicamente scorretto


Mi sono imbattuto, quasi per caso, in un articolo apparso sul sito del Corriere della Sera, relativo al lavoro della dott.ssa Simona Rivolta, psicologa milanese, che ha dato alle stampe il volume "La nostra famiglia da qui in poi. Affrontare la separazione senza smettere di fare i genitori", con la Bur Edizioni.

In particolare, la dott.ssa Rivolta scrive : "Il mito del buon divorzio è, appunto, un mito. Per i figli la separazione dei genitori è un trauma, anche quando ci si separa con tutte le attenzioni del caso. È bene metterselo in testa".
E poi, mostrando davvero un coraggio inusuale in questi tempi di conformismo e populismo imperante: "La maggior parte delle coppie che incontro chiede come non far stare male i figli. La risposta è una, anche se semplicistica e poco rispettosa: non ci si separa.Se questo avviene, bisogna essere preparati a certi comportamenti dei figli, non catalogarli come preoccupanti".

Considerazioni straordinarie nella loro "normalità". Sono cose che sappiamo tutti, in realtà. Che abbiamo sempre saputo, ma che abbiamo voluto dimenticare e nascondere.

Tutto questo per me, che da più di tre decadi mi occupo di questioni familiari, ha il sapore di una rivoluzione. 
In tutto il corso della mia professione ho accompagnato un numero impressionante di coppie nel proprio percorso di riconfigurazione familiare. Non sono mai riuscito a scrollarmi di dosso la sensazione di affacciarmi in un inutile ed irreparabile baratro di dolore. 

Tutto questo, mentre i media, unanimemente, si trastullavano con immagini giulive di famiglie allargate, di genitorialità alternative, e di tante altre varie amenità, nascondendo o mistificando sistematicamente problemi gravissimi quali l'impoverimento di coniugi gravati da mantenimenti insostenibili perfino per l'INPS, la deresponsabilizzazione genitoriale sistematica a danno dei figli, la desertificazione culturale della famiglia (intesa come nucleo affettivo fondante per l'individuo e la comunità) e l'assenza totale di strumenti istituzionali di supporto e difesa. Il tutto, con il crescere di violenze ed abusi, a mio avviso strettamente connessi al crescere del disagio relazionale di cui nessuno è capace di prendersi carico.

Esiste un incredibile meccanismo giudiziario che sui divorzi vive. Consulenti, avvocati, associazioni e tribunali, hanno drenato (e drenano) ricchezze e potere. 
Ma di divorzio si muore, sia quando si uccide per davvero, si aggredisce, si sfigura con l'acido; sia quando si vede la propria vita schiacciata e deformata; sia quando i nostri figli lo subiscono come un evento traumatico indelebile, che da quel momento in poi li cambia in modo permanente.

Non predico la restaurazione ante-1975, non immagino un referendum antidivorzista.

Mi piacerebbe però che, quantomeno, si smettesse di affrontare la questione familiare come fosse solo un divertente fenomeno di costume, e non invece una pur fisiologica questione centrale sia per gli individui che per la società. Che si smettesse di specularci sopra, facendone argomento per rastrellare voti, denari, influenza e notorietà. Che si finisse di alimentare rabbia, rancore, solitudine e sofferenza in una comunità già tanto provata dalla crisi economica, com'è la nostra.
Mi piacerebbe che si iniziasse a farne oggetto onesto di riflessione, cominciando con l'ammettere ora, subito, che così non si può più andare avanti.

Illusioni?

giovedì 10 luglio 2014

I 3 grandi errori da evitare nella scelta dell'avvocato

Si sa, purtroppo nella vita prima o poi toccano a tutti delle disgrazie.

Si prova a tenersene lontani con scongiuri, con grandi e piccole scaramanzie, con offerte agli Dei e tattiche dilatorie… ma inevitabilmente arriva per ognuno il maledetto giorno in cui ci si rende conto di aver bisogno di un avvocato!

Del resto, mica potete pensare che i guai capitino sempre agli altri, no?

Ebbene, datemi retta: quando quel momento arriva, è meglio premunirsi per evitare ulteriori drammi. Già è orribile il pensiero di doversi recare da questa figura mitologica a metà fra un serpente piumato ed un licantropo… cerchiamo almeno di non commettere ulteriori errori.

Ce ne sono tre, più consueti:

1) Mi serve un avvocato bastardo, così distruggo l’avversario.
Sfatiamo un mito, amici miei. Gli avvocati “bastardi” di solito lo sono sempre, non solo quando fa piacere a voi. In altre parole sono innanzi tutto “bastardi dentro”. Se non hanno scrupoli con l’avversario state tranquilli che non ne avranno nemmeno con voi, ed anzi, è molto probabile che proprio voi sarete le loro prime, spesso uniche, vittime. Dovete sapere infatti che di solito tali colleghi “ringhianti” sono ben conosciuti nell’ambiente, sia dagli altri avvocati che dai giudici, e per questo ampiamente disistimati ed ostacolati. Raramente riescono a sortire risultati positivi. Tranne che a loro favore, naturalmente, facendosi pagare fior di parcelle.


2) Mi occorre un avvocato bravo, quindi vado dal migliore.
Ahimé, dovete sapere che “l’avvocato migliore” è una proiezione del nostro desiderio di assistenza. Come tale, però, è solo una illusione. Esistono i grandi studi “di moda", è vero, ma di solito sono tali perché si fanno pagare moltissimo, soprattutto per l’immagine e la struttura. Se vi rivolgete ad uno di questi, è molto probabile che l’incarico sia preso dal suo notissimo titolare (che poi vi presenterà una parcella adeguata al suo nome), ma che il lavoro venga effettivamente svolto da uno dei più giovani di studio. Perciò, meglio è informarsi fra parenti ed amici per individuare un professionista onesto e diligente, di cui si abbia già avuta esperienza e di cui si siano già verificate queste due doti essenziali e decisive. Poi, nel colloquio che avrete con lui, sentirete “a pelle” se potrete fidarvi o meno. Di regola, ciò basterà ampiamente a farvi ottenere ragione, se l’avete.


3) In fondo se ho ragione vincerò comunque, quindi non mi serve un avvocato di fiducia, mi basta quello che si fa pagare di meno.
Eh. Magari fosse così semplice! Partiamo da un dato di fatto: nessuno lavora gratis. Ne voi, ne l’avvocato. Quindi, se lo pagate poco è perché… lavora poco.
La strada opportuna è invece quella che vi fa pagare il giusto in relazione alla qualità dell’impegno che ottenete. E qui affrontiamo il secondo punto: non è detto che “aver ragione” vi consenta di ottenere per ciò solo un giudice che ve la riconosca. La verità processuale molto spesso è diversa da quella reale, ed è necessaria una grande collaborazione fra voi ed il vostro legale di fiducia affinché le due verità possano combaciare. Quello che conta davvero in un legale, e che fa la differenza, è l’esperienza, la capacità strategica di saper utilizzare gli strumenti normativi più adatti e tanto, tanto buon senso. Se riuscirete a trovare un avvocato così (ce ne sono, credetemi) sarete sulla buona strada per ottenere risultati accettabili. Ricordate però che pretendere onestà va bene se sarete voi i primi a garantirla, sia nelle informazioni che fornirete che nella ricompensa che riconoscerete.


Insomma: più conoscete il vostro legale, più lo eviterete nel futuro!

lunedì 7 luglio 2014

La giustizia di Paperinik

Ho sempre adorato il papero notturno, alter ego di un malcapitato vittima di zii despoti, nipotini insopportabili, fidanzate volubili e sfortune varie.

In fondo la dimensione del giustiziere fornito di gadget fantascientifici appartiene alla fantasia di ognuno di noi. Chi non vorrebbe poter spiaccicare con un panzer gommato l’auto di quel bruto che ci ostacola il parcheggio?

Chi non godrebbe ad usare una enorme mano a molla per schiaffeggiare il vicino che si ostina ad ardere puzzolentissime braci sul balcone di fianco al nostro, proprio quando il caldo ci costringe a lasciare aperte le finestre?

Quella parte di noi che è preda di rabbie, di rancori, di sensi di rivalsa, vorrebbe esprimere la propria furia distruttiva in ogni modo possibile, appena possibile.

Viviamo in un’epoca in cui il malessere collettivo ed individuale è quotidiano. Siamo tutti insoddisfatti della nostra vita, delle nostre relazioni, e tendiamo solitamente ad addossarne la responsabilità volta per volta agli obiettivi che i media ci propongono.
Possono essere i politici, sempre ladri (beh… ;-)) oppure gli extracomunitari, sempre profittatori, o magari i massoni, perennemente intenti a tramare o i clericali, oscurantisti per definizione.

Via di questo passo, generiamo categorie su categorie; l’importante è che siano nemiche, ostili, responsabili di tutta la nostra sofferenza, di tutti i mali, di tutti i guasti.
Ovviamente gli avvocati non sono da meno: oggettivamente, nella percezione generale, un omicidio di un avvocato non è un reato… e battute, barzellette, motti di spirito ostili non si contano.

Ne cito giusto uno, così, tanto per esempio:
Avvocati : preferiti alle cavie nei laboratori medici perché si riproducono più in fretta, sopprimendoli non si hanno problemi di coscienza, e poi san fare più cose dei topi. (Michael Rafferty)

Probabilmente, se veniamo percepiti con tanto amore e riconoscenza in larga parte del mondo, un po’ di responsabilità l’abbiamo: quanto meno, non siamo stati capaci di evitare che tanti di noi mostrassero meno scrupoli di una medusa killer. 

Eppure nessuno mi toglie dalla mente che le generalizzazioni per categoria, con la loro logica di “giustizialismo alla Paperinik” finiscano per ritorcersi contro gli stessi giustizieri, che, ben contenti di aver deatomizzato con un apposito accrocco ideato da Archimede Pitagorico tutti gli odiati legali, non si accorgono così di aver fatto il gioco di altri e più organizzati profittatori.

Da anni la figura del difensore viene sistematicamente demolita. 

In parte, lo abbiamo detto, dagli stessi appartenenti all’Ordine, che davvero ben poco hanno fatto per imporre ai propri iscritti vere e stringenti norme deontologiche e comportamentali.
In larga parte, però, c’è lo zampino di ben altri figuri.

Con la giustificazione di costi esorbitanti, comportamenti vessatori, parcelle insostenibili ed irresistibile tendenza all’evasione fiscale, associazioni di “consumatori” insieme a legislatori complici, hanno devastato la normativa preesistente, imponendo ai professionisti onesti (perché quelli disonesti trovano comunque il modo di continuare ad esserlo, fregandosene altamente) dapprima retribuzioni ridicole, soprattutto per i giovani, e poi via via sottraendo ambiti di esercizio dell’attività.

Invece di puntare ad una “sanificazione” della professione, facendo in modo che i disonesti, i profittatori, gli incompetenti, venissero espulsi dal sistema, si è preferito mortificare la figura dell’avvocato difensore del cittadino, delegittimandolo, imponendogli una serie di oneri (assicurazioni, aggeggi informatici da acquistare a carissimo prezzo, vincoli di parcella e non avete idea quante altre follie) ed estromettendolo da molti ambiti.

Così il consumatore-cittadino è vendicato. Quegli sporchi truffatori/evasori degli avvocati sono sistemati.

Bene.

Ma ai diritti della gente chi ci pensa? 

Non si sa. Davvero, nessuno lo sa.

venerdì 4 luglio 2014

L'ordinario senso di (in)giustizia

Ebbene si, sono un avvocato...
Lo so, lo so che non è una bella cosa.

Eppure, una volta, tanti anni fa, lo era.
So che vi può risultare davvero difficile crederci ma… lo era.

A quel tempo, si sceglieva di dedicare la propria vita alla rappresentanza dei deboli, di chi subiva ingiustizie, di chi aveva bisogno di essere difeso da soprusi e vessazioni.

A quel tempo, c’era chi poteva scrivere:
"Molte professioni possono farsi col cervello e non col cuore. Ma l'avvocato no. L'avvocato non può essere un puro logico, né un ironico scettico, l'avvocato deve essere prima di tutto un cuore: un altruista, uno che sappia comprendere gli altri uomini e farli vivere in sè, assumere su di sè i loro dolori e sentire come sue le loro ambasce.
L'avvocatura è una professione di comprensione, di dedizione e di carità.
Non credete agli avvocati quando, nei momenti di sconforto, vi dicono che al mondo non c'è giustizia. In fondo al loro cuore essi sono convinti che è vero il contrario, che deve per forza esser vero il contrario: perché sanno dalla loro quotidiana esperienza delle miserie umane, che tutti gli afflitti sperano nella giustizia, che tutti ne sono assetati: e che tutti vedono nella toga il vigile simbolo di questa speranza...
Per questo amiamo la nostra toga: per questo vorremmo che, quando il giorno verrà, sulla nostra bara sia posto questo cencio nero, al quale siamo affezionati perchè sappiamo che esso ha servito a riasciugare qualche lacrima, a risollevare qualche fronte, a reprimere qualche sopruso, e, soprattutto, a ravvivare nei cuori umani la fede, senza la quale la vita non merita di essere vissuta, nella vincente giustizia.
Beati coloro che soffrono per causa di giustizia... ma guai a coloro che fanno soffrire con atto di ingiustizia!
E, notate, di qualunque specie e grado di ingiustizia... perchè accogliere una raccomandazione o una segnalazione, favorire particolarmente un amico a danno di un estraneo o di uno sconosciuto, usare un metro diverso nella valutazione del comportamento, o delle attitudini, o delle necessità degli uomini, è pur questo ingiustizia, è pur questo offesa al prossimo, è pur questo ribellione al comando divino
”.


L’uomo che scriveva queste cose era Piero Calamandrei, morto nel 1956.
Un’altra epoca, un altro mondo.
Per quanto possa sembrare impossibile, però, c’è ancora chi ci crede.
Io la toga non l’ho mai avuta. Me l’hanno fuggevolmente poggiata sulle spalle al momento del giuramento.

Era una toga “di nessuno”, lisa, sporca e di molte taglie più grande. In quel momento, però, una toga più piccola, nuova di zecca e giusta di misura, mi è scesa sul cuore.

E li è rimasta.