lunedì 24 novembre 2014

Giornata internazionale contro la violenza sulle donne: l’ennesima occasione mancata di combattere insieme.

Lo scorso luglio, proprio sulle colonne di questa pagina Diritto & Famiglia, ebbi modo di constatare quanto spaventosi fossero i numeri della violenza familiare e di genere.
In quella occasione, denunziai la vergognosa arretratezza dei dati registrati dall’ISTAT, fermi addirittura al 2006, segno evidente di un disinteresse istituzionale inspiegabile verso il fenomeno.
A distanza di un anno ci ha pensato l’Eu.r.e.s. a diffondere un rapporto relativo agli omicidi di donne in Italia per l’anno 2013.
I numeri sono agghiaccianti: 179 vittime, con un aumento generale del 14% rispetto all’anno precedente.

Nella statistica rientrano in effetti anche i delitti commessi durate atti di criminalità comune (28) di cui la maggior parte rapine, che vedono soccombere soprattutto donne anziane.
Resta però il fatto che ben il 68,2% degli omicidi totali si sono consumati all’interno del contesto familiare, lì dove gli affetti dovrebbero garantire protezione e cura.

Nel 66,4% di tali casi, il carnefice è stato il partner, attuale o ex, anche se un nuovo fenomeno inquietante si sta affacciando all’orizzonte della rilevazione statistica: il matricidio.
Pare infatti che la crisi economica e sociale, costringendo i figli ad un innaturale prolungamento delle convivenze, in qualche modo induca anche una esasperazione letale dei rapporti familiari, tanto da indurre il 18,9% dei delitti commessi contro la madre. Un aumento del 3,7% rispetto agli anni precedenti.

Nel rapporto citato si possono reperire altri dati interessanti, ma ciò per i nostri fini non è indispensabile: quelli citati costituiscono già materiale più che sufficiente per una seria riflessione.

I miei lettori sanno bene quanto io non ami le generalizzazioni, e quanto di solito rifugga dai luoghi comuni che inducono a valutazioni sempre più o meno sottilmente condizionate dalle fonti delle notizie.
I media sono solitamente restii a fornire dati “secchi”, preferendo invece disporli e presentarli al lettore in modo da confermare questa o quella tesi preconfezionata che l’articolista vuole sostenere.

Ad esempio, a mio avviso diffondere i soli dati relativi agli omicidi di donne è un modo non corretto di evidenziare il dramma in atto. 
Per consentire ai fruitori dell’informazione una valutazione realmente libera da preconcetti occorrerebbe diffondere statistiche su tutti gli omicidi e su tutte le violenze occorse in ambito familiare, ivi comprese quelle sui minori, sugli anziani e sugli uomini.

Perché vedete, a mio avviso il vero dramma di questa epoca non è il “femminicidio” (termine detestabile e discriminatorio) ma la violenza in sé, soprattutto quando esercitata in ambito familiare proprio per la sua particolarissima ed anzi unica natura di “culla di affetti ed identità”.
La mia tesi è che “parcellizzare” la denunzia del fenomeno di fatto lo sminuisca, lo indebolisca, lo isoli.

Che una donna sia malmenata, violentata, sfigurata, non è un problema di genere, è un problema di tutti, e solo con una profonda e condivisa presa di coscienza si può affrontare con successo.

Ridurre la lotta al sopruso ed alla sopraffazione ad una questione di donne, significa marginalizzarla, sminuirla, isolarla da un contesto ampio e reale; significa solitudine e debolezza.
Facendone una questione solo femminile, si finisce col rinchiuderla in una dimensione limitata, dove solo alle donne è chiesto di intervenire e cambiare.
Il che, francamente, è inaccettabile.

La violenza offende la coscienza di chiunque, senza limiti di età, sesso, colore della pelle.
La violenza uccide tutti indistintamente, e tanto è più orribile perché è sempre vile, perché sempre colpisce chi, nella sua condizione di vittima, è più debole.
Non è un problema delle donne. No. 
E’ un problema mio, tuo che leggi, nostro, di tutti! Non si vince con ghetti culturali, ma con la condivisione di valori, con la diffusione di sensibilità, con il sostegno forte e duraturo di tutti e di ognuno.

Altrimenti le singole declinazioni della sopraffazione, che possiamo chiamare via via femminicidio, bullismo, omofobia, razzismo, integralismo, ma che sono sempre e solo la stessa cosa, avranno modo di dividerci, di indebolirci, di lasciarci soli a combattere.

Questo non può e non deve accadere, pena la definitiva frantumazione della nostra residua umanità.
Siamo tutti troppo soli, e questo ci rende deboli. Quando lo capiremo?

lunedì 10 novembre 2014

Di certi giudici, legislatori ed avvocati, possiamo fare a meno

lunedì 10 novembre 2014

Francamente il primo a meravigliarsi di quanto sto per dirvi sono io.

Da quando mi sono incamminato sulla difficile ed appassionante strada dell'avvocatura, ho sempre fortemente creduto nel sistema, nel corretto ed equilibrato gioco delle parti, nella terzietà del giudicante sottoposto solo ed esclusivamente dalla legge,  ed alla lungimiranza del legislatore, capace di sintetizzare e strutturare i bisogni del corpo sociale.

Di fronte allo sfacelo compiuto in questi ultimi trenta o quarant'anni, però, mi accorgo che la mia fiducia è ormai mal riposta.

Tre sono i cardini su cui il meccanismo della umana giustizia si articola: un ordinamento ben strutturato, difensori onorabili e capaci, magistrati preparati, imparziali e soggetti esclusivamente alla legge.

Ai miei occhi, nessuno di questi essenziali fulcri oggi è più tale.

Per giustificare il mio pensiero, porterò ad esempio il mondo della famiglia nel modo con il quale viene "amministrato" nelle aule dei tribunali e "trattato" dal legislatore.

La nostra giurisprudenza, ignara del passare dei decenni, continua a teorizzare una forma di famiglia ormai del tutto irreale. 

Nel 2006 il legislatore aveva, senza equivoci, indicato la necessità di affidare i figli, in caso di separazione, alle cure di entrambi i genitori, sia praticamente che nel modo di provvedervi economicamente.

La giurisprudenza, però, ha generalmente ritenuto di poter tranquillamente disapplicare una norma dello stato.
Essa giurisprudenza ha pervicacemente continuato a gravare la gestione dei figli per il 95% dei casi sulla madre, in base ad un preconcetto funzionale fermo agli anni '50, laddove alla donna si riconosceva solo l'onere di gestire figli e casa, mentre all'uomo la possibilità di lavorare e fare carriera, libero dalle incombenze di accudimento domestico.

Risultato? Figli privati di entrambi i genitori, liti furibonde fra gli ex coniugi, madri gravate da oneri insostenibili e discriminatori, padri demotivati e ridotti a meri bancomat.
Insuccesso su tutti i fronti.

Del resto, la medesima giurisprudenza ha pure del tutto disapplicato il principio della contribuzione diretta al mantenimento della prole, con le più fantasiose motivazioni. Io stesso, nella pratica concreta, mi sono sentito rispondere "no avvocato, è troppo difficile!" (mah!) anche quando le parti si presentavano in prefetto accordo fra loro con un piano ben strutturato di ripartizione delle spese.

Ancora, sempre dal punto di vista patrimoniale, la giurisprudenza italiana si distingue con altre interpretazioni davvero "creative" sia pur del tutto inesistenti nel dettato normativo. 
Famosa, per non dire tristemente famigerata, è la soluzione trovata per quantificare il contributo di mantenimento al coniuge più debole; esso deve "consentire il medesimo regime di vita goduto in costanza di matrimonio". 

Su questa terra, non credo esista nessuno capace di dividere la somma dei redditi dei due coniugi, facendo in modo però che ognuna delle singole parti continui ad avere lo stesso valore. 
La saggezza popolare, probabilmente più sperimentata, ammonisce: "se dividi una ricchezza, diventa due povertà".

In effetti un caso diverso c'è: qualcuno provò con successo a moltiplicare pani e pesci. Ma aveva altre e più divine origini.

La nostra giurisprudenza, invece, ritiene di poterlo pretendere dai normali ed umanissimi separati, così da garantire ad uno dei due la stabilità economica "ex ante". Peccato però che l'altro finisca di solito nelle mense della Caritas, per sopravvivere.

Certo, si obietterà, ci sono molti che si sottraggono all'obbligo di contribuzione. Ma ciò ci ricorda il vecchio quesito sulla primogenitura fra l'uovo e la gallina.
Un po’ come accade per le tasse inique: se lo Stato pretende troppo, di fatto incoraggia l'evasione. Allo stesso modo, se la giurisprudenza impone contribuzioni troppo gravose, finisce con l'incoraggiarne l'elusione.

Vogliamo poi parlare del contesto nel quale ci si trova durante un giudizio relativo alla famiglia? 
Tempi biblici, modalità di comparizione quantomeno disagevoli se non addirittura brutali, e contenziosi spesso pretestuosi ed inutili, connotano ogni processo di separazione o divorzio. Per non parlare della generale indifferenza che tutto il sistema riserva alle sensibilità delle parti e dei poveri minori che ci incappano.
Né gli uffici, né certi avvocati, purtroppo, si preoccupano più di tanto delle modalità in cui questi scontri si consumano, con i risultati che ognuno sa. Anzi, per taluni di noi più si combatte violentemente più si guadagna.

Bene.

Ora il legislatore, con un atto davvero coraggioso, aveva tentato di sottrarre le parti, almeno in mancanza di figli minori o economicamente dipendenti, a tutta questa simpatica giostra, attraverso il decreto legge 132 del 2014.
In quel provvedimento, entrato in vigore lo scorso 13 settembre, si è introdotta la c.d. "negoziazione assistita" che consentirebbe alle parti, con l'assistenza( da cui appunto il nome) dei rispettivi legali , di formalizzare un accordo di separazione, di divorzio o di modifica dei relativi patti, in breve tempo e senza lo stress delle aule dei tribunali.

Personalmente, ho fatto appena in tempo a trascrivere un accordo del genere. Ho potuto constatare come le parti siano rimaste davvero, davvero, ed ancora davvero sollevate e soddisfatte dei tempi e dei modi con cui siamo riusciti a far annotare il loro divorzio.

Purtroppo, la legge di conversione, recentemente approvata dal Senato, sembra abbia immediatamente vanificato buona parte di questi vantaggi. 
Pare infatti che per poter ottenere la trascrizione dell'accordo, le parti dovranno sottoporlo preventivamente, sempre e comunque, al "visto" del Pubblico Ministero. 
Che ci siano minori o meno, con buona pace dell'intento di de-giurisdizionalizzare e snellire.
Il che vuol dire che l'ingolfamento oggi dei Tribunali, sarà domani della Procura della Repubblica… e che le parti dovranno nuovamente, inutilmente, ingiustamente attendere mesi e mesi per risolvere il loro problema. Più tempo, più stress, più liti.

Ma a chi importa?

A questo punto, allora, vi propongo una riflessione, fors'anche provocatoria: di fatto il matrimonio, nell'immaginario collettivo, è stato svuotato degli aspetti concettuali (spirituali, politici e sociali) "pubblici" che lo connotavano, sostituiti da un concetto più squisitamente "privato" di famiglia.

In sostanza, in questi tempi vi è famiglia laddove ci sia un nucleo (anche temporaneo) di affetti espressi "more uxorio", che possano essere quindi riconosciuti a coppie di fatto, omosessuali, a famiglie "allargate" o anche monogenitoriali, pur garantiti da una serie di vincoli normativi di tutela.
Se così è, non si capisce a cosa serva più l'intervento ingombrante dello Stato, per mezzo dei suoi vari rappresentanti, che non fanno altro che appesantire, ritardare, aggravare la gestione del contenzioso.

Non sarebbe meglio, allora, avere il coraggio di aprire a patti pre-matrimoniali ben strutturati, che definiscano tutti gli aspetti sia economici che di affidamento dei figli in caso di rottura dell'unione? Di dare spazio a veri e propri moduli e configurazioni  contrattuali che regolino privatamente coppie e famiglie? Di consentire la gestione arbitrale delle eventuali controversie, con l'impegno alle più moderne modalità di mediazione e negoziazione? In altri termini, non sarebbe meglio privatizzare tutto ciò che, in fondo, da sempre è privato: l'ambito degli affetti?
Si limiti l'intervento delle strutture pubbliche solo a difesa degli interessi pubblicamente rilevanti, dei minori, e solo quando realmente lesi.

Oppure?
Fino a qualche tempo fa, avrei auspicato una riforma seria, svincolata da interessi economici o di prestigio di questa o di quella "classe", che affidi a personale con esperienza specifica la trattazione delle questioni familiari, come in un erigendo Tribunale della Famiglia.

Ma ora… ora non vedo alternative: francamente, penso che di certi giudici, di questi legislatori e di certi avvocati, dovremmo davvero (e finalmente) imparare a fare a meno.